Ci sono alcuni elementi che contribuiscono più di altri a circondare di auree leggendarie certi luoghi. Uno di questi è l’essere stato teatro di qualche grande impresa: il Siula Grande sarebbe rimasto solo una delle tante belle montagne delle Ande, se Joe Simpson non fosse riuscito a sopravvivergli. Un altro è il nome: oltre a rivelare una grande ricchezza di storia e cultura, ci sono toponimi talmente evocativi da lasciare impresso un inconscio desiderio avvicinarli, di capirli e viverli. Quest’ultimo è sicuramente il caso (almeno per quanto mi riguarda) della cresta nord del Piz Bernina, lato svizzero, più nota come Biancograt o Crast’ Alva (la cresta bianca), oppure Himmelsgrat (la cresta del cielo). In italiano, lingua della poesia per antonomasia, questa è diventata la Scala del Cielo.
Avvicinarsi all’alpinismo ha siginficato per me il tentativo di acquisire le risorse tecniche, mentali e fisiche per cercare salire più in alto possibile, avvicinarmi al cielo, ma facendolo con le mie forze, magari mettendole alla prova attraverso percorsi impegnativi. La via Biancograt del Piz Bernina ha incarnato, più di altre salite, questo desiderio, fino a quando il desiderio è diventato progetto e il progetto realtà.
Ad inizio estate 2011 io e Fede, con una scarsissima esperienza di scalate su terreno misto, maturata quasi tutta sulla cresta Ongania dello zucco di Pesciola, classica salita delle prealpi lecchesi, lanciamo l’idea-Biancograt al Giardinetto. Il Prina, declina suo malgrado causa matrimonio (non suo, ma comunque irrinunciabile) mentre Liuk e il Gilla si uniscono alla spedizione: ne esce un quartetto temibilissimo a scopone scientifico ma tutto da verificare in campo di alpinismo classico. Ciononostante decidiamo di gettare il cuore oltre l’ostacolo e individuiamo un weekend a cavallo tra giugno e luglio che, secondo le nostre previsioni, dovrà garantire condizioni di innevamento e temperatura ancora buone. Una volta tanto il meteo ci è amico e cosi’ venerdì mattina, dopo un rapido controllo del materiale, partiamo con tutta calma da Monza alla volta di Pontresina. La giornata è calda e assolata e anche quando valichiamo il passo del Maloja, l’atmosfera tra di noi è di allegra eccitazione quasi si trattasse di una spensierata gita nella placida valle cara a Segantini.
Giunti a Pontresina, raccogliamo zaini e materiale vario e subito dimostriamo di che pasta siamo fatti, evitando di percorerre a piedi la bella e pianeggiante, benché lunga, Val Roseg preferendo un comodo passaggio in calesse che ci lascia comunque tempo e modo di abbandonarci alla sua tranquilla e confortante bellezza, per condurci infine all’Hotel Gletscher proprio di fronte all’imponente ghiacciaio del Piz Roseg.
Da qui prendiamo a salire in direzione della Chamanna Tschierva, ben segnalata, uscendo prima dal fitto bosco di larici, abeti e cembri e proseguendo poi su terreno morenico, che conducono dopo 500 metri di dislivello al rifugio costituito di due corpi, uno più tradizionale in pietra e uno più moderno, cubiforme e dall’aspetto meno romantico. La mia attenzione tuttavia non viene catturata dal rifugio, né per la sua dubbia estetica e nemmeno per le sue promesse ristoratrici, ma dal profilo preciso, tagliente, inconfondibile del Piz Bernina, che mi ipnotizza obbligandomi a percorrere con lo sguardo la linea di salita del giorno dopo trasmettendomi un vago senso di vertigine. “Ecco, ci siamo!” penso con un pizzico di ansia – la prima dell’avventura – mentre riprendo il cammino.
Giunti alla chamanna tra una birra e una sortita per foto alla Cresta Bianca, finalmente ci mettiamo a tavola per la cena ma, come già capitato alla Capanna Albigna, il pasto si riduce ad un brodino appena più consistente dell’acqua e un secondo di carne insapore. Carboidrati non pervenuti, cosa che mi proccupa non poco in vista del dispendio di energie previsto per il giorno seguente. Ad ogni modo i rifugi svizzeri ci confermano la propria pochezza culinaria.
Poco dopo abbandoniamo gli spazi comuni e iniziamo le operazioni di accantomanento con l’obiettivo di coricarci per le 21:30 massimo. La sveglia generalmente prevista dagli scalatori del Bernina che intendono tornare a valle in giornata, raggiungendo la funivia del Diavolezza oppure direttamente a piedi per il ghiacciaio del Morterasch, e’ infatti fissata intorno alle 2:30, con partenza prevista tra le 3 e le 3:30. Conoscendo i nostri limiti atletici e tecnici ma volendo anche prolungare il piu’ possibile la nostra esperienza d’alta quota, avevamo pianificato una sosta intermedia al rifugio Marco e Rosa, che ci avrebbe consentito di partire con calma in fondo al gruppo e scalare i tratti piu’ impegnativi senza la pressione delle cordate dietro di noi. La notte trascorre abbastanza tranquillamente tranne che per il Gilla, sempre un po’ sofferente durante le notti in altura, ma quando la sveglia suona alle 3 noi siamo già operativi, a causa della fervente attivita’ già messa in atto dagli altri scalatori. Con tutta calma ci vestiamo, facciamo colazione e iniziamo a prepararci per la salita, in controtendenza rispetto alla frenesia che ci circonda animata dallo sferragliare di ramponi, piccozze e moschettoni delle cordate che fanno a gara per terminare la vestizione e portarsi nelle prime posizioni della processione che inizia a serpeggiare lungo il buio sentiero.
Intorno alle 4 e mezzo con la frontale accesa e una dozzina di innocui gradi sotto lo zero ci incamminiamo già distanti qualche centinaio di metri in linea d’aria dai penultimi, che scompaiono definitivamente alla nostra vista non appena giungiamo ai piedi del ripidissimo pendio ancora ben innevato che conduce alla Fuorcla Prievlusa. Mentre monto i ramponi, assicuro la corda e mi tranquillizzo al pensiero delle buone condizioni della neve, abbondante e consistente, mi si avvicina Fede, mio compagno di cordata, che con aria grave mi dice “Ce la facciamo, vero?” Non capivo bene perché me lo chiedesse; forse il freddo, forse il buio, forse il muro che ci si opponeva di fronte. Ma non avevo tempo per pensarci e, sfoderando il sorriso piu’ rassicurante di cui ero capace, gli rispondo “Certo!” con voce squillante. Di episodi come questo sono piene le salite e si tende a torto a non darvi troppo peso. In realtà quando ci si sente “appesi ad un filo” durante l’attività alpinistica, non si puo’ fare a meno di chiedersi chi o che cosa ci sia all’altro capo del filo. E se nelle scalate su roccia la corda è sempre legata alla parete e le preoccupazioni sono rivolte alla solidità e alla tenuta dei chiodi e delle soste, nell’alpinismo d’alta quota, quando il terreno non consente sempre ancoraggi fissi o buona roccia, ci si può affidare soltanto alla fiducia che si ripone nel compagno, che ha il compito di lasciare da parte l’obiettività per dedicarsi a mantenere vive le risorse mentali del socio. Risorse mentali che in questo tipo di attività sono altrettanto importanti di quelle fisiche o tecniche.
Attacchiamo il muro di neve ancora in ombra sebbene il buio stia lasciando spazio al primo chiarore del giorno nel cielo orientale. Accumuliamo una discreta quantità di freddo su tutto il corpo arrampicando il ripido pendio ghiacciato sino a quando, finalmente, non guadagniamo la conca della Fuorcla Prievlusa dove, varcando il confine mai così netto tra la notte e il giorno, veniamo investiti da un ondata di luce e calore che ci travolge in modo improvviso, come se qualcuno avesse acceso l’interruttore della luce, e ci restituisce un bel po’ di euforia e fiducia nelle nostre possibilità, alimentate anche dalla splendida vista che ci si apre davanti. Sono le 8 e mezzo del mattino e siamo in cammino da circa 4 ore quando raggiungiamo la Fuorcla a quota 3450 metri. Abbiamo messo alle spalle quasi due terzi del dislivello ma il restante terzo si dimostrerà decisamente il più impegnativo. Anche se tutte le relazioni sono concordi nel considerare il gendarme posto poco prima della vetta come il passaggio più ostico dal punto di vista alpinistico, i bastioni rocciosi a monte della Fuorcla Prievlusa, che oppongono passaggi fino al III grado in misto, oltre ad un certo impegno tecnico si dimostrano di non semplice lettura dal punto di vista dell’approccio.
Infatti a seconda delle condizioni e della stagione è possibile trovare più o meno ghiaccio lungo i punti in ombra, e di conseguenza l’uso dei ramponi o della corda diventa scelta non prevedibile e molto personale. Condizionati dalla nostra inesperienza, decidiamo di tenere i ramponi costantemente ai piedi e di procedere assicurandoci con tiri di corda, cosa che rallenterà di parecchio la nostra progressione.
Superato il primo tratto, prendiamo un minimo di confidenza in più con il terreno e con le manovre. Ma quando ci sembra di aver preso un buon ritmo di salita, ecco comparire alle nostre spalle una cordata composta da una guida svizzera e dal suo cliente che in breve ci raggiunge e ci supera alla velocità della luce. La guida, che procede in conserva corta, mostra un’abilità nel gestire la corda, allungandola o accorciandola a seconda delle necessità, degna di quella di un ragno con la sua tela. Ricordo bene che quei pochi minuti spesi ad osservarlo attentamente, sono valsi come ore di corso CAI o studio sui manuali. Dopo l’impietoso sorpasso, ci rendiamo conto di procedere piuttosto lentamente, zavorrati da manovre poco fluide e dai non pochi passaggi impegnativi su roccia nuda e verticale sui quali lasciamo parecchi minuti nel tentativo di indovinare gli appoggi adatti a sostenere le punte dei nostri ramponi. Tuttavia dopo poche decine di minuti riusciamo a uscire dal tratto roccioso e giungere all’inizio della cresta nevosa, il tratto più celebre della salita.
Il sole caldo e l’elegante profilo della Biancograt che ci si è posto di fronte ci sottraggono all’ansia del tempo e dell’altitudine e ci regalano qualche minuto di euforia mentre cerchiamo di ricaricare le batterie con qualche barretta energetica. Mentre sono intento ad osservare come ipnotizzato l’imponente cresta immaginandola il dorso di un enorme animale affetto da una grave forma di scogliosi, vengo scosso dal perentorio “Noi iniziamo ad andare!” con cui il Gilla si congeda dal banchetto assieme al socio Liuk. Poco dopo anche io e Fede ci mettiamo in marcia, lungo il filo della cresta che in realtà non termina sulla cima del Piz Bernina ma su quella del suo compagno di altezze, il Pizzo Bianco, che con i suoi 3995 metri è rimasto alla porta del prestigioso club dei 4000, e forse proprio per questo derubato della giusta popolarità. Raggiungiamo abbastanza rapidamente il tratto più pendente, sul quale i nostri passi si fanno via via sempre più lenti e pesanti, sicuramente per gli effetti dell’altitudine che inizia ad affannare il nostro respiro, ma forse anche per via del subconscio timore di svegliare il gigante, di lacerargli il bianco manto; timore acuito dalle impressionanti pareti che precipitano per centinaia di metri su entrambi i lati. Mi giro a cercare lo sguardo di Fede, che mi sorride estasiato dall’amena bellezza che ci circonda: la ricompensa più grande a tanta fatica.
Un’ora più tardi le pendenze si attenuano e l’altimetro segnala quota 3950 metri. “Ci siamo” mi dico, mentre spingiamo i nostri passi su un tratto di cresta che piega a sinistra impedendoci di vedere oltre qualche decina di metri. Quando oltrepassiamo la curva vediamo il Gilla e Liuk che guardano perplessi davanti a sé, una vertiginosa parete di roccia ghiaccio sulla nostra sinistra e la cima del Bernina, separata da una cresta rocciosa, lunga come un rosario e affilata come la spada di Goemon.
Ricordo ancora bene lo scoramento e la delusione dopo essermi reso conto che avremmo trovato ancora molto pane duro per le nostre mascelle ormai indolenzite. Era appena passato mezzogiorno, e forse anche il tempo iniziava a farsi breve. I primi metri ci danno subito il benvenuto: misto roccia e ghiaccio, in discesa, massi probabilmente non molto stabili, vuoto sotto i nostri ramponi. I nervi sono subito messi a dura prova su quella che credo che sia la parte più impegnativa dell’intera scalata.
Torniamo ad avanzare lentamente in conserva corta, cercando di assicurarci dove possiamo, sfruttando la morfologia della cresta e integrando con protezioni veloci. Un’ultimo tratto di neve compatta conduce ad un anello di calata che utilizziamo per portarci ai piedi del temuto sperone roccioso posto a guardia della vetta noto come “gendarme”, l’ultimo vero ostacolo prima della cima. Le relazioni che si trovano in rete suggeriscono due differenti approcci alla scalata del gendarme: la prima consiste nel salire un primo facile tratto per poi aggirare orizzontalmente il torrione, evitando così il tratto più verticale e tecnico. Date le ottime condizioni di innevamento, noi abbiamo scelto invece di salite il tratto ripido, anche per la presenza di un paio di chiodi, che rendono l’ascesa di questo tratto più impegnativa ma anche più sicura. Proprio per questa ragione ho trovato meno difficoltosa e anche più entusiasmante l’ascesa del gendarme rispetto al tratto precedente. Una volta in cima al gendarme, sfruttiamo l’anello in loco per una veloce calata, prima di superare l’ultima ripida rampa che conduce infine sull’agognata vetta del Piz Bernina.
Ho bene impressa nella mente e nel cuore, le sensazioni di quell’arrivo, che tuttora ha un sapore diverso da ogni altro arrivo, precedente e seguente. Non sensazioni di bravura, anche perché stavamo mantenendo una tempistica quasi imbarazzante per alpinisti che vogliono definirsi tali, ma sensazioni di aver vinto una scommessa con se stessi, a pensarci bene anche un po’ azzardata considerata l’inesperienza. Mi sono sorpreso a pensare di aver perso un pezzo ad ogni passo della lunga salita: fatiche, preoccupazioni, paure, ruggini, ansie, fino a giungere alla vetta leggero e liberato, un po’ più simile a me stesso. Ho passato molto tempo ad ammirare il panorama circostante, fatto di giochi di luci ed ombre proiettate sulle vette circostanti e a spingere lo sguardo fino a dove questo poteva arrivare, per poter imprimere nella mentre un ricordo quanto più indelebile possibile.
Dopo qualche foto di rito, verso le quattro del pomeriggio, iniziamo la discesa cappeggiata come sempre da Gilla e Liuk. Quando anche io e Fede ci rimettiamo in moto, vediamo la cordata gemella iniziare la traversata della sottile cresta che divide la cima svizzera, la più alta, dalla cima italiana, anch’essa decisamente spettacolare ma più semplice di quella tesa tra Pizzo Bianco e Bernina. Oltre la cresta torniamo in territorio patrio e seguendo il profilo ben innevato della montagna, giungiamo all’ultimo anello di calata della lunga giornata, che ci consegna al placido ghiacciaio del versante italiano, che percorriamo con le gambe pesanti ma la mente finalmente rilassata fino al Rifugio Marco e Rosa, 3600 metri di altitudine, meta intermedia del nostro giro.
Poco prima delle sei mettiamo piede nell’edificio principale del rifugio, ma il nostro baldanzoso entusiasmo è immediatamente spento dal “Bianco”, al secolo Giancarlo Lenatti, il rifugista, il quale ci annuncia che la nostra confortevole e calda camera, prenotata ben tre settimane prima, è stata ceduta a chi prima si è accomodato, e che a noi non è rimasto altro che prendere posto nel gelido e inospitale locale invernale. Un po’ come essere rispediti all’inferno dopo aver messo piede in paradiso… ma questa rimane l’unica nota stonata, di sapore squisitamente italiano, di un esperienza per il resto memorabile. Naturalmente trascorriamo più tempo possibile nell’edificio principale, birretta alla mano, studiando la traccia per l’indomani, con l’aiuto della fida Kompass e di Nicolas, la guida svizzera che ci aveva superato qualche ora prima, che ci offre generosamente qualche utile dritta. Per giungere alla funivia del Diavolezza evitando il crepacciatissimo ghiacciaio del Morterasch, saremmo infatti risaliti fino ai piedi della catena montuosa formata dai Pizzi Zupò e Argient, e rimasti in quota costeggiando i Bellavista per poi iniziare la discesa in direzione del salto roccioso denominato la Fortezza, il punto alpinisticamente più impegnativo della giornata. La stanchezza intanto inizia a prendere il sopravvento e così, dopo una cena sicuramente più dignitosa di quella della sera precedente, andiamo a coricarci nella ghiacciaia, dove trascorriamo la notte più svegli che addormentati.
Il giorno dopo con tutta calma, ci rimettiamo in cammino seguendo l’evidente traccia che, serpeggiando tra profondi crepacci, aggira la Cresta Aguzza e prende quota sino a costeggiare il maestoso anfiteatro glaciale delle Alpi Retiche. Il sole già alto ci scalda i volti, e la sua luce rimbalzando sul ghiaccio cristallino sembra esplodere come fuochi d’artificio. Dopo l’impegno del giorno precedente questo pacifico tratto permette di godersi appieno lo straordinario ambiente circostante. Seguendo la netta traccia compiere un’ampia parabola verso sinistra, iniziamo a ridiscendere sino a quando ci ritroviamo di fonte ad un enorme segmento di roccia affiorante dal ghiacciaio, la Fortezza, che approcciamo con circospezione. Quando le pendenze si fanno decisamente impegnative ecco comparire un anello di calata che ci consente di scendere ad una cengia dalla quale una parete rocciosa quasi verticale precipita sul ghiaccio sottostante. Notiamo un anello di calata dietro a una roccia, ma ci rendiamo conto che una sola calata non sarebbe sufficiente per giungere fino ai piedi della parete. Rompo gli indugi iniziando la discesa cercando attentamente la prensenza di altri anelli, ma purtroppo non ne trovo alcuno fino a dove riesco ad arrivare. Non ho più corda per scendere in doppia e così mi lego ad uno dei capi e chiedo ai soci di calarmi di peso fino alla crepacciata terminale. Cercando meglio più a destra gli altri riescono a scorgere l’anello intermedio, necessario per poter effettuare le manovre di calata.
Una volta rimessi i piedi sul ghiaccio, riprendiamo la traccia che ci conduce, attraverso una piana costellata di crepacci, alla roccia sulla quale è posto l’arrivo della funivia del Diavolezza. Questo sperone, una volta appena fuori dal ghiacciaio, oggi si erge a ben 350 metri dalla piana: un dislivello che copriamo con le gambe di legno maledicendo i nefasti effetti del riscaldamento globale. Dopo aver consegnato alla montagna le ultime stille di sudore raggiungiamo la funivia che dopo una breve attesa ci riporta a fondovalle, sani, salvi ma stravolti.
E’ passato qualche anno ormai dalla scalata del Bernina ma il suo ricordo è ancora molto nitido persino in molti dettagli, segno che l’esperienza è stata veramente significativa. D’altra parte dopo quella salita non siamo certamente diventati bravi alpinisti anche perché purtroppo negli anni successivi non abbiamo avuto o non ci siamo cercati occasioni per tenere allenata la nostra “abilità”. Penso che se dovessi ripetere una salita del genere mi toccherebbe affrontare le stesse difficoltà di allora. Ma una cosa credo di aver imparato bene da questa esperienza: la necessità di affrontare le sfide più impegnative con i compagni giusti. Per scalare i Bernina non occorre essere forti, né scalare con quelli più forti: basta scalare con quelli in cui si ripone piena fiducia. Accanto a loro si diventa automaticamente più forti.
Note logistiche
Val Roseg – Chamanna Tschierva:
- Dislivello 550 m
- Tempo di percorrenza 1h 45′
- Difficoltà E (escursionistica)
Chamanna Tschierva – Vetta del Bernina – Rifugio Marco e Rosa
- Dislivello: +1500 m alla vetta -400 m al Marco e Rosa
- Tempo di percorrenza: 7 – 9h sino alla vetta del Bernina + 2h dalla vetta al Marco e Rosa.
- Difficoltà D- (Grado roccia: IV- roccia – Pendenza ghiaccio: 45°)
Rifugio Marco e Rosa – Diavolezza
- Dislivello: ~400 m
- Tempo di percorrenza ~2h
- Difficoltà PD
Mappa
Link utili
http://www.pontresina.ch/it/estate/tempo-libero/escursioni/carrozze-trainate-da-cavalli.html
http://www.rifugi.lombardia.it/sondrio/lanzada/rifugio-marco-e-rosa.html
“Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!”
Promessi sposi?!?! Ale mi sa che ormai sei alla frutta…..
fine e graffiante umorismo … ma è sforzo vano, apprezzate solamente le banane !!!!!
…come essere di nuovo lì!!
Grande Giò, di nuovo bravi tutti!
@brrr: sempre un signore!